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Venerdì 4 luglio – LA VITA DA GRANDI

La vita da grandi

Regia di Greta Scarano. Con Matilda De Angelis, Yuri Tuci, Maria Amelia Monti, Ariella Reggio, Gloria Cocco. Genere Commedia, – Italia, 2025, durata 96 minuti.

Irene sta per comprare un appartamento a Roma con il suo compagno, ma viene richiamata nella sua città natale, Rimini, per occuparsi del fratello maggiore Omar. Sua madre deve partire per approfondire delle analisi mediche, suo padre l’accompagnerà e occorre prendersi cura di un fratello autistico che ha sogni ambiziosi. Per realizzarli la sorella prova a fargli un “corso intensivo per diventare adulti” che include la scelta di salire o meno sul palco di un talent show a esibirsi e coronare così il desiderio di una vita. Nel frattempo, grazie a Omar, sarà la stessa Irene a capire molto di se stessa e di cosa voglia veramente dalla vita.

Nel suo La vita da grandi mette tutto il suo cuore, la dolcezza e quell’approccio irriverente al mondo che restituisce sullo schermo attraverso la figura di Irene, interpretata al meglio da Matilda De Angelis. Una ragazza carismatica, dallo spirito rock e dalla battuta pronta, che ha scelto un compagno protettivo (Adriano Pantaleo) e una vita lontana dalla famiglia. Ma il nòstos, Omero insegna, è un viaggio inevitabile e pieno di peripezie da cui non si può che tornare cambiati. Specie se si ritorna nella casa abitata da un fratello speciale come Omar. Lo interpreta l’ottimo Yuri Tuci, attore autistico scovato per caso in rete grazie al trailer del suo spettacolo Out is me. Il ritorno di Irene nella sua vita cambierà entrambi, tutti e due dovranno crescere e confrontarsi con “la vita da grandi” del titolo. Ne sintetizza bene il senso Scarano che cofirma anche la sceneggiatura, l’adultità è la capacità di fare delle scelte. Anche sbagliate.

Folgorata dal libro di Damiano e Margherita Tercon (i Terconauti) “Mia sorella mi rompe le balle. Una storia di autismo normale”, Scarano firma una commedia garbata che parla di sogni, legami familiari, inclusione, ma anche chiassose cene familiari davanti al televisore, tra racconti, incomprensioni e recriminazioni (spicca la performance di Maria Amelia Monti, nel ruolo della madre legittimamente apprensiva). Al suo debutto nel lungometraggio la neoregista dimostra di avere già uno stile definito – chi aveva avuto modo di vedere il suo corto Feliz Navidad lo sapeva – e di non aver paura di osare una storia e un tema su cui era facile schiantarsi, sprofondando nella retorica o nel ricatto morale. Questo film riesce a evitare entrambi, puntando tutto sull’ironia e la verosimiglianza della messa in scena (finalmente un cinema italiano lontano dagli agi ostentati dell’alta borghesia, che mostra la quotidianità di famiglie “normali”), rendendo perdonabile a chi guarda qualche ingenuità di scrittura. Tanto è coinvolgente il racconto del legame che si rinsalda tra i due protagonisti, tra conflitti, risate, paure e speranze condivise. Affronteranno anche il tema cruciale per tutti i fratelli del mondo – specie per chi ha sorelle/fratelli con handicap – del “cosa fare dopo la morte dei genitori”.

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Giovedì 3 luglio – THE BRUTALIST

The Brutalist

Regia di Brady Corbet. Con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy. Genere Drammatico, – Gran Bretagna, 2024, durata 215 minuti.

Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi. Gli inizi in America sono difficili, per le necessità economiche e l’impossibilità di poter portare con sé la moglie Erzsébet e la nipote Zsofia, ma grazie al cugino Attila, a László viene commissionata la ristrutturazione di una libreria dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren. Il lavoro di Tóth porta prestigio a Van Buren, che decide di affidargli un progetto mastodontico: la costruzione di un centro culturale e luogo di aggregazione, destinato a ospitare nello stesso edificio biblioteca pubblica, palestra e cappella. Durante il lavoro Tóth incontra molte difficoltà, per le diffidenze verso gli stranieri e per i continui tentativi di alterare il suo progetto originario, ma pur di difendere strenuamente il suo lavoro, arriva a investirvi parte dei propri profitti.

Un inizio frenetico ci introduce ai personaggi principali, riassumendo quanto avvenuto in Ungheria durante e dopo la Seconda guerra mondiale, per lasciare poi spazio a un rallentamento del ritmo e dello svolgimento cronologico della biografia di Tóth. Lo spettatore approfondisce la conoscenza del protagonista e comprende il suo rapporto di speranza e disillusione, amore e odio, con gi Stati Uniti d’America, luogo dell’accoglienza e terra degli uomini liberi secondo la vulgata e la retorica comune, ma tempio del profitto e dell’ipocrisia nella dolente realtà.

L’impatto con il continente rivela ben presto un retrogusto acre sotto l’illusione del luogo dove tutto è possibile: Corbet sembra prefigurarlo inquadrando solo con un’immagine ruotata di 90 gradi la Statua della Libertà, simbolo dell’accoglienza verso gli stranieri approdati a New York. In Van Buren, László sembra aver finalmente trovato il perfetto mecenate, un animo sensibile all’arte e disposto a lasciare la massima libertà creativa all’artista magiaro. Dopo aver creduto alla generosità e alle belle parole spese da Van Buren nei suoi confronti, però, Laszlo scoprirà il rovescio della medaglia: tra i due si instaura una dinamica ambigua e altalenante, che simboleggia la relazione tra Usa e Europa.

(mimovies.it)

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Mercoledì 2 luglio – AMICHEMAI

Amichemai

Regia di Maurizio Nichetti. Con Angela Finocchiaro, Serra Yilmaz, Gelsomina Pascucci, Pia Paoletti, Maurizio Nichetti. Genere Commedia, – Italia, 2024, durata 90 minuti.

Anna è una veterinaria che, a causa della sua professione che svolge con amorevole cura, deve affidare da tempo il padre, a cui è affezionata, a una badante turca con la quale è in costante disaccordo. Il genitore invece la stimava al punto di averle lasciato in eredità il proprio letto che ha conservato dei segreti in comune. Anna si ritrova così ad accompagnare il letto ed Aysé in un viaggio che fa loro attraversare la penisola balcanica. Le avventure e le scoperte non mancheranno.

Sono passati 23 anni da quando un film di Maurizio Nichetti trovava la luce di un proiettore e un grande schermo. Da allora si è dedicato all’insegnamento, alle regie teatrali, alla direzione di festival. Ma evidentemente nelle vene, sottopelle, nel cuore e nella mente il cinema continuava a fargli sentire, magari anche inconsciamente, che prima o poi…

Quel poi ora è arrivato e ci fa comprendere come e quanto il fare cinema per questo autore estremamente personale si sia identificato e continui ad identificarsi con l’esigenza di affrontare strade non battute in precedenza da altri.

Il suo esordio folgorante con Ratataplan, originale sin dal titolo onomatopeico nonché film muto, testimoniava già all’epoca (1979) quanto l’originalità trovasse spazio nelle sue sceneggiature e regie così come sarebbe accaduto in futuro sia sul piano narrativo che su quello dell’utilizzo delle tecnologie. Nichetti non ha potuto né voluto mutare questo modo di guardare al cinema e di realizzarlo neanche a distanza di così tanti anni perché, pur non andando su un set, si è tenuto costantemente aggiornato sui mutamenti nel mondo della comunicazione.

Ecco allora che si prende il rischio di inserire due giovani content creators che dai loro telefoni cellulari si inseriscono nella vicenda on the road per mostrare alcuni momenti della lavorazione sui vari set. Perché parlare di rischio? Perché, Nichetti ne è ovviamente più che consapevole, interrompere il fluire di un percorso narrativo per mostrare il backstage può far sì che lo spettatore in qualche misura interrompa la cosiddetta ‘sospensione dell’incredulità’ finendo con il fare fatica subito dopo a riprendere il corso degli eventi.

(mimovies.it)

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Martedì 1 luglio – FUORI

Fuori

Regia di Mario Martone. Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi. Genere Drammatico, – Italia, Francia, 2025, durata 115 minuti.

Roma, 1980: la scrittrice Goliarda Sapienza è appena uscita dal carcere, dove è stata rinchiusa per aver rubato e rivenduto dei gioielli. Ora che è fuori, deve trovarsi un lavoro per impedire lo sfratto dal suo appartamento, e cerca di tutto, compresi incarichi di cameriera e domestica, perché le sue collaborazioni come correttrice di bozze e giornalista non sono sufficienti. Nel cassetto ha il manoscritto di “L’arte della gioia”, che sarà pubblicato solo postumo e osannato a livello internazionale: ma al momento nessuno lo vuole (e in Italia nessuno lo pubblicherà fino a dopo l’enorme successo oltralpe). Nel tempo sospeso dopo la sua scarcerazione Goliarda trova conforto solo nella presenza di due ex compagne di carcere, Roberta e Barbara, l’una arrestata per motivi politici, l’altra per aver aiutato un malvivente di cui è innamorata.

Il resoconto ha forti richiami con la parabola della protagonista del romanzo “L’arte della gioia” nel personaggio di Roberta, una sorta di Modesta di inizio anni Ottanta, la stagione post anni di piombo che ancora ne conserva la volontà eversiva ma ha già perso la speranza di cambiare il mondo. Anche Roberta è capace di tutto, un cavallo selvaggio cui è impossibile mettere le briglie, e Goliarda l’ama per questo, considerandola un po’ figlia scapestrata e un po’ un suo alter ego più disinibito e coraggioso.

Valeria Golino, che conosce a fondo la figura di Sapienza anche per averla a lungo studiata in preparazione alla sua regia della serie L’arte della gioia, ne coglie alla perfezione l’elusività e lo straniamento, vagando per il film peripatetico diretto da Mario Martone e da lui scritto insieme a Ippolita di Majo con la sensazione palpabile di una non appartenenza, non alla sua epoca o al suo contesto, ma all’esistenza tutta, e del suo sentirsi molto più affine alle carcerate che ai frequentatori dei salotti dell’intellighenzia. La sua Goliarda ha fame di vita (oltre che tentazioni di morte) e trova in Roberta e Barbara, rumorose, sopra le righe e sfacciate, le portavoce del suo grido inespresso.

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Lunedì 30 giugno – FLOW – UN MONDO DA SALVARE

FLOW – Un mondo da salvare

Regia di Gints Zilbalodis. Genere Animazione, – Belgio, Lettonia, Francia, 2024, durata 84 minuti.

Un gatto nero vede salire pericolosamente intorno a sé il livello dell’acqua, come per un diluvio universale che mira a sommergere il suo mondo. Il gatto comincia a saltellare di superficie in superficie, finché non zompa a bordo di un natante che è una sorta di arca biblica dove si raccoglierà un gruppetto di altri animali in fuga dall’inondazione: un labrador, un capibara, un lemure, e uno strano uccello gigante che potrebbe rivelarsi un predatore. Il gatto, indipendente e solitario per natura, e inizialmente preoccupato solo di salvare se stesso, dovrà imparare a fare squadra. Intorno a lui tanta natura sommersa e qualche manufatto, a indicare la presenza di un’umanità forse scomparsa in epoca precedente: perché il tempo e il luogo qui sono indefiniti, a indicare quell’eterno presente in cui vivono gli animali, intenti solo alla sopravvivenza giorno per giorno, e in questo caso attimo per attimo.

Non ci sono dialoghi, solo immagini e suoni (eccezionale l’occasionale commento musicale dello stesso Zilbalodis insieme al compositore e connazionale Rihards Zalupe). Il tratto semplice e senza fronzoli risulta incantevole e quasi ipnotico nel trasportarci di sequenza in sequenza, e il fatto che rimandi in qualche modo al videogame non fa altro che aggiungere potenza metafisica alla storia.

Il gatto protagonista ricorda un po’ quello che insieme alla gabbianella animava il film culto di Enzo D’Alò, e ci identifichiamo in lui come in qualunque eroe umano di avventura: sentiamo la sua paura, ammiriamo il suo coraggio, comprendiamo i suoi dubbi circa i compagni di traversata. E lo vediamo compiere gesti di generosità e altruismo dei quali ci domanderemo se saremmo altrettanto capaci, imparando a dare e a ricevere fiducia.

L’acqua è ovunque, in fiumi, distese, cascate improvvise (e si sa quanto sia difficile rendere credibile l’acqua in animazione); sotto si intravvede un mondo arcaico e selvatico, impotente d fronte all’inondazione. Tutto scorre, come in Eraclito, perché questa è la vita, e gli animali lo intuiscono e lo accettano meglio di noi.

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Domenica 29 giugno – NOTTEFONDA

Nottefonda

Regia di Giuseppe Miale Di Mauro. Con Francesco Di Leva, Mario Di Leva, Adriano Pantaleo, Dora Romano, Giuseppe M. Gaudino. Genere Drammatico, – Italia, 2024, durata 86 minuti.

Da un anno Ciro si aggira per Napoli di notte, andando sempre a parare nel luogo dove sua moglie Flavia ha perso la vita in un incidente d’auto. Ciro va in giro a cercare l’auto rossa che ha buttato Flavia fuori strada, con il desiderio di punire i colpevoli della sua disperazione. In queste scorribande notturne lo accompagna il figlio Luigi, che si infila nella sua macchina a tradimento, e cerca di aiutarlo ad identificare l’auto rossa. Luigi non molla suo padre, gli sta attaccato come una tellina, e a casa la madre di Ciro aspetta in preda alla preoccupazione.

Rosario, un amico di famiglia, offre a Ciro un lavoro come elettricista per aiutarlo a risollevarsi dal lutto subìto. Ma il fratello di Rosario, Carmine, ha un altro lutto da affrontare: il suocero ha tentato il suicidio per essere stato licenziato in tronco dalla fabbrica dove ha lavorato tutta la vita. Anche Carmine è rimasto per strada, e ora medita vendetta.

Miale Di Mauro adatta per lo schermo insieme a Di Leva padre e a Bruno Oliviero il suo romanzo omonimo e firma una storia sanguigna e disperatamente vitale, nonostante il tema del lutto, in una Napoli notturna e desolata, ottimamente fotografata da Michele D’Attanasio.

La regia è compatta, fortemente empatica, e tira fuori il meglio da un cast di attori eccezionale: Francesco Di Leva è il cuore pulsante (lo stomaco, i visceri, la carne) di Ciro, e modula con grande sapienza e intensità ogni emozione del suo personaggio, e Mario Di Leva gli tiene testa con grazia e spontaneità. La loro interazione è reale non solo perché sono padre e figlio nella vita, ma perché condividono visibilmente la stessa devozione per il teatro e la stessa attenzione ad essere veri, non solo verosimili. Accanto a loro spiccano soprattutto Adriano Pantaleo (anche lui cofondatore del NEST), che incarna la rabbia esplosiva di Carmine senza mai “stroppiare”, e la monumentale Dora Romano nel ruolo della madre di Ciro, paralizzata dallo sconcerto e ammutolita dal dispiacere.

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Sabato 28 giugno – DIAMANTI

Diamanti

Regia di Ferzan Ozpetek. Con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Luca Barbarossa (II), Sara Bosi. Genere Commedia, Drammatico, – Italia, 2024, durata 135 minuti.

Fine anni ’70. Alberta e Gabriella Canova sovrintendono una grande sartoria specializzata in costumi per il cinema e il teatro: un microcosmo tutto al femminile del quale fanno parte la capo sarta Nina, che ha un figlio hikikomori ante litteram, la ricamatrice Eleonora, vedova con una nipote ribelle, Beatrice, la tingitrice Carlotta, la modista Paolina con un figlio piccolo che si nasconde nella stanza dei bottoni (quelli per gli abiti, non quelli del Pentagono), le sarte Nicoletta, malmenata picchiata dal marito Bruno, e Fausta, single ironica e “allupata”, più l’ultima arrivata, la giovane stagista Giuseppina. La cuoca del palazzo che ospita la sartoria è l’ex ballerina Silvana che ha una parola di conforto, e un pasto abbondante, per tutti.

Quando la costumista premio Oscar Bianca Vega commissiona alla sartoria Canova i costumi per il suo prossimo film le lavoratrici si buttano a capofitto nell’impresa, avendo cura di non fare mai incontrare la regina del teatro Alida con la nuova promessa del cinema Sofia. Vicino ad Alberta e Gabriella c’è la zia Olga, sorella di una madre scomparsa troppo presto ma ancora ben viva nei cuori delle figlie, come lo è la mamma di Ferzan Ozpetek nel suo.

“Ci saranno in tutto quattro uomini”, annuncia fieramente: e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. Più che al Pedro Almodovar cui all’inizio della carriera veniva paragonato, Ozpetek richiama qui il Francois Ozon di Otto donne e un mistero, dove gli uomini sparivano completamente (uno per mano di una delle protagoniste), e più che a Douglas Sirk strizza l’occhio al Leo McCarey di Un amore splendido. “Non c’è niente di quello che ti aspetti”, annuncia Ozpetek alle sue attrici, e invece Diamanti è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità.

Le donne che popolano la sartoria Canova possono litigare, insultarsi e prendersi in giro ma non si pugnalano alle spalle: non sorprende che alla sceneggiatura, oltre al regista, ci siano due mani femminili, Carlotta Corradi (anche autrice del soggetto) ed Elisa Casseri. Questo senso di “sorellanza” è incarnato al sommo grado dalle due protagoniste, legate tanto dall’affetto quanto da ricordi dolorosi che affrontano in modo speculare e contrario: Alberta passandoci sopra come uno schiacciasassi, Gabriella schivandoli accuratamente. Luisa Ranieri e Jasmine Trinca interiorizzano completamente i rispettivi ruoli, acquisendo fisicamente l’una una durezza programmatica, l’altra una negazione di sé che sfiora l’annullamento (mai le occhiaie di Trinca sono risultate tanto simboliche).

Al centro c’è anche il rispetto di Ozpetek per il lavoro sartoriale, che combina pazienza e precisione, estro e concretezza, e in particolare l’attenzione che chi crea costumi per lo spettacolo dà al rapporto fra i personaggi e il loro abito di scena, che dev’essere ispirazione e rafforzamento, veicolare il movimento del corpo e farsi gabbia solo per trasmettere l’idea di prigione. Ozpetek però continua a comunicare primariamente attraverso i volti e gli sguardi: fra sorelle, fra amanti, fra genitori e figli, fra i bambini e il mondo. Sono sguardi pinei di passione e di paura, sofferenza e sollievo.

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Venerdì 27 giugno – LA TRAMA FENICIA

La Trama Fenicia

Regia di Wes Anderson. Con Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera, Riz Ahmed, Tom Hanks. Titolo originale: The Phoenician Scheme. Genere Azione, Commedia, Thriller, – USA, 2025, durata 105 minuti.

Anatole «Zsa-zsa» Korda, magnate quasi immortale, colleziona nemici e incidenti aerei, a cui sopravvive a dispetto dei suoi sabotatori. In un clima da predazione capitalistica e di morte prossima, Korda mette in ordine i suoi affari e decide di lasciare la sua immensa fortuna a sua figlia, novizia imperturbabile, con pipa e rosario, a un passo dai voti. Salvo che il nostro ha altri nove figli, tutti maschi, che non ha il tempo o il desiderio di amare. La presenza di Liesl, che accetta il lavoro di ereditiera provvisoria nel tentativo di identificare l’assassino di sua madre, cambierà le carte in tavola e il destino di un padre imbarcato in un rocambolesco progetto industriale.

L’armonia delle sue simmetrie, la colorimetria che esclude i bianchi squillanti e i neri profondi, il giallo, che qui come in Grand Budapest Hotel o Fantastic Mr. Fox gli permette di enfatizzare un’epoca e di correggere la gioia o il calore che gli viene spontaneamente attribuito, la teatralizzazione del cinema, la tipografia – cartelli di lettere disegnate, calligrafate o cucite -, i paesi immaginari e lo spirito rétro, che non contempla cellulare e intelligenza artificiale, ci fanno rimpiangere ancora una volta di non avere abbastanza occhi per divorare tutta la bellezza, le invenzioni, i momenti sospesi.

A chi conosce la filmografia di Anderson, La trama fenicia sembrerà sorprendente a metà ma è proprio questa la sua forza: coniugare il vecchio col nuovo per offrire una storia che esplora situazioni familiari attraverso temi inediti e un tema ricorrente. Perché la morte è dappertutto nell’opera di Wes Anderson, e più di ogni altra cosa nella sua messa in scena, che è primariamente una natura morta. Fino ad oggi era stata trattata come evento liberatorio, mai come punizione finale.

Qui si abbina a un immaginario più cupo, incorporando un lessico visivo proprio della religione cristiana e una violenza più grafica. Il protagonista, eroe bastardo, passa l’intero film a fuggire la morte, incarnata in maniera più letterale e in un aldilà in bianco e nero, un Giudizio Universale in cui siedono Charlotte Gainsbourg e Bill Murray.

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Giovedì 26 giugno – LA MISURA DEL DUBBIO

La misura del dubbio

Regia di Daniel Auteuil. Con Daniel Auteuil, Grégory Gadebois, Sidse Babett Knudsen, Alice Belaïdi, Suliane Brahim. Titolo originale: Le fil. Genere Drammatico, – Francia, 2024, durata 115 minuti.

Jean Monier è un avvocato di lungo corso, ma scottato dall’esperienza con l’ultimo cliente che ha difeso. Dopo qualche anno di assenza dai tribunali, per fare un favore alla moglie-collega, si trova a rappresentare un padre di famiglia in stato di fermo e accusato di aver ucciso la consorte. Sarà l’inizio di un caso che durerà anni, arrivando fino al processo, e che vedrà Jean approfondire il legame con Nicolas, uomo mite che giura di essere innocente e di non aver mai voluto fare del male a sua moglie.

Sarà perché i primi tre erano così legati agli adattamenti della produzione teatrale di Marcel Pagnol, ma ora Auteuil cerca qualcosa di diverso; guarda infatti alla cronaca giudiziaria, traducendo per il grande schermo una delle storie vere pubblicate dall’avvocato Jean-Yves Moyart.

Il cambiamento più forte è nello spostare l’ambientazione dal nord della Francia al sud che Auteuil conosce bene, essendoci cresciuto. Un sud atipico, tra le paludi e i tori della Camarga, attraverso cui il regista “si appropria” di questa storia che confina con il polar, tutta vissuta dal punto di vista dell’avvocato protagonista, e incentrata sul rapporto tra l’imputato e il suo rappresentante.

Rapporto fatto di fiducia e confidenza, perfino di affetto, ma che può muoversi esclusivamente entro i limiti della sincerità reciproca. Da regista concreto e pragmatico nel ritagliarsi un ruolo ricco – di ascolto, reazione, oratoria – Auteuil sceglie poi un volto intrigante con cui dialogare: quello di Grégory Gadebois, prolifico caratterista bravo a incarnare la mite indecifrabilità di Nicolas.

Il suo è il ruolo chiave in un’opera che fin dal titolo gioca con la percepita linearità della vicenda e con le aspettative del pubblico. La sfida è rendere particolare un caso che all’apparenza sembra generico, con l’orgoglio di uno stile certamente “vecchia scuola” e dotato di solida caparbietà.

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Mercoledì 25 giugno – FOLLEMENTE

Follemente

Regia di Paolo Genovese. Con Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi. Genere Commedia, – Italia, 2025, durata 97 minuti.

Romeo è tenero e romantico, Valium folle e paranoico, Eros arrapato e sensuale, il Professore razionale e giudicante. No, non sono esseri umani, ma personalità che abitano la mente di Piero, insegnante di Storia e Filosofia recentemente divorziato e con una figlia piccola, intenzionato a rimettersi in gioco con le donne ma ancora scottato dalle delusioni del passato. Giulietta è romantica e sognatrice, Trilli istintiva e sexy, Alfa ideologica e disciplinata e Scheggia irrazionale e istintiva. E anche loro non sono persone reali, ma parti della personalità di Lara, la giovane donna single reduce dalla relazione infelice con un uomo sposato che vorrebbe un partner affidabile che l’aspetti sotto casa, e invece tende a cadere nella trappola di amori senza futuro.

Lara e Piero si incontrano per il loro primo appuntamento, si piacciono ma non osano confessarlo (nemmeno a se stessi), incartandosi su ogni dettaglio, impegnati ad ascoltare le voci interiori delle loro rispettive personalità. Riusciranno a zittire quel chiacchiericcio incessante e a trovare la strada verso una relazione finalmente appagante?

Ne deriva un fuoco di fila di battute di un’ora e mezza, con un cast di attori ben noti al pubblico, ognuno intento ad incarnare un aspetto ben definito del “carattere” maschile o femminile, e a far entrare in contraddizione la coppia centrale interpretata da Edoardo Leo e Pilar Fogliati.

L’idea ricorda il film di animazione Inside Out, ma qui non si tratta di emozioni bensì di tratti comportamentali. Ovviamente a far ridere sono soprattutto Trilli ed Eros (Emanuela Fanelli e Claudio Santamaria) così come Valium e Scheggia (Rocco Papaleo e Maria Chiara Giannetta), mentre a Giulietta e Romeo (Vittoria Puccini e Maurizio Lastrico) tocca la parte più commovente e al Professore e Alfa quella più rigidamente raziocinante.

L’energia cinetica fra gli attori funziona, così come funziona il copione scritto a cinque mani dal regista Paolo Genovese (anche autore del soggetto) con Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi, che immaginiamo seduti intorno a un tavolo fare a gara per tirare fuori la battuta più divertente. Al fondo c’è qualcosa di meccanico, come c’era anche nel più grande successo di Genovese, quel Perfetti sconosciuti di cui sono stati fatti un numero record di remake internazionali. Ma l’idea è divertente, e lo sviluppo è attento ad incorporare le nuove (iper)sensibilità maschili e femminili in tema di rapporti sentimentali, nonché a preservare la componente romantica di quella che vorrebbe diventare una storia d’amore, nonostante tutto.

I momenti più riusciti sono un orgasmo trionfale che unisce tutte le voci interiori in un unico coro, e l’incontro improvviso fra le personalità maschili e femminili che comporta un mescolarsi del cast, fino a quel momento schierato su opposte barricate. FolleMente è un film dichiaratamente da grande pubblico che beneficerà della reazione collettiva a situazioni (anche dolorosamente) familiari e sfacciatamente comiche, riflettendo quelle esitazioni che caratterizzano le relazioni contemporanee (“Verso io o versi tu?”, “Femminismo o galateo”? Senso di responsabilità o istinto animale? Sincerità o mistero?).

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