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Giovedì 24 luglio – NOI E LORO

Noi e loro

Regia di Delphine Coulin, Muriel Coulin. Con Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon, Arnaud Rebotini (II), Édouard Sulpice. Titolo originale: Jouer avec le feu. Titolo internazionale: The Quiet Son. Genere Drammatico, – Belgio, Francia, 2024, durata 110 minuti.

Pierre è un ferroviere cinquantenne che sta crescendo da solo, dopo la morte della moglie, i due figli. Louis, il minore, ha finito gli studi superiori e può lasciare Villerupt per studiare nella non economica Parigi. L’altro, Fus, gioca a calcio, ha una competenza da metalmeccanico e si sta pericolosamente avvicinando a gruppi di estrema destra dei quali condivide le idee e le modalità di azione. Pierre ha tutt’altri ideali e si trova in difficoltà a gestire il rapporto con il figlio.

Non c’ è un solo personaggio femminile che abbia rilievo in questo film. Questo vale da un punto di vista relativo alle presenze. Perché invece c’è un’assenza che pesa sul nucleo familiare. È quella di una moglie/madre scomparsa prematuramente lasciando tre figure maschili (due delle quali in crescita) a convivere e a confrontarsi.

C’è un elemento che assume valore simbolico in un film in cui il protagonista viene mostrato più volte al lavoro. In particolare in un’immagine in cui avanza, con torcia in mano, di notte, sui binari dell’area ferroviaria presso cui è impiegato. Il buio ideologico che sta progressivamente avvolgendo Fus potrebbe essere vinto dalla fiamma degli ideali che il padre ha sempre sostenuto (anche se ora non è più in prima linea) offrendo ai propri figli dei binari che credeva potessero impedire deragliamenti. Non è andata così ed ora Pierre si trova a dover gestire la relazione con un figlio che continua ad amare ma del quale respinge amicizie e comportamenti.

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Mercoledì 23 luglio – PICCOLE COSE COME QUESTE

Piccole cose come queste

Regia di Tim Mielants. Con Cillian Murphy, Eileen Walsh, Michelle Fairley, Emily Watson, Clare Dunne. Titolo originale: Small Things Like These. Genere Drammatico, – USA, Irlanda, Belgio, 2024, durata 96 minuti.

Nel sud dell’Irlanda, a metà degli anni ottanta, Bill Furlong è un venditore di carbone a cui serve una lunga sessione di pulizia con il sapone per togliersi di dosso il nero del mestiere quando torna a casa la sera. Lo fa con piacere prima di poter abbracciare le cinque figlie e la moglie, così come con piacere aiuta chiunque altro in paese, specialmente ora che è quasi Natale. Ma nel convento dove consegna il carbone Bill vede come le suore trattano le ragazze che hanno “in cura”, e un giorno cerca di soccorrerne una, Sarah, che gli ricorda molto la madre scomparsa quando era bambino.

Lo scandalo delle Case Magdalene, istituti religiosi in Irlanda che attraverso il secolo scorso sono stati teatro di abusi nei confronti di ragazze e giovani madri, ha già trovato esposizione cinematografica in film come Magdalene di Peter Mullan (Leone d’oro a Venezia) e Philomena di Frears. Ma nel 2021 il successo del romanzo breve di Claire Keegan “Small things like these” ha di nuovo attirato l’interesse del grande schermo, con Cillian Murphy in veste di produttore che nell’adattare la storia si ritaglia anche il ruolo di protagonista.

Non epopea di sopravvivenza attraverso gli anni per le vittime, né sguardo storico postumo sugli effetti della vicenda; la regia del belga Tim Mielants è un’essenziale parabola natalizia, che nella sua brevità coglie il profondo di un singolo istante: quello in cui una persona come tante si chiede se sia davvero possibile far finta di non vedere cosa accade nel convento in fondo alla strada del paese, in cui le ragazze sono tenute nascoste e trattate come prigioniere.

La persona in questione è il carbonaio Bill, un personaggio definito dalle superfici: quella ruvida del cuoio sulle spalle della sua giacca, spesso in primo piano con i solchi profondi scavati dalle sacche di carbone trasportate ogni giorno. E poi quella – per fortuna solubile – della polvere scura che si porta sempre addosso, con cui alla sera intraprende una personale guerra di trincea per impedirgli di fare breccia nell’idillio domestico con le adorate figlie.

Di momenti così è costellato il film, pieno di ritorni e ripetizioni sugli stessi luoghi, che danno un senso di grande economia del racconto e al tempo stesso di oppressione, perché Bill non sa togliersi dalla testa ciò che ha visto, nonostante tutti (compresa sua moglie) gli dicano di farsi gli affari propri e di non disturbare chi ha un potere così egemonico.

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Martedì 22 luglio – IO SONO ANCORA QUI

Io sono ancora qui

Regia di Walter Salles. Con Fernanda Torres, Selton Mello, Fernanda Montenegro, Valentina Herszage, Maria Manoella. Titolo originale: I’m Still Here. Genere Drammatico, Storico, – Brasile, Francia, 2024, durata 135 minuti.

Brasile, 1971. Rubens Paiva, ex deputato laburista, vive con la moglie Eunice e i cinque figli a Rio de Janeiro. Il colpo di stato del 1964 lo ha espulso dalla scena politica e ha instaurato una dittatura militare che spaventa Eunice e le fa temere per l’incolumità della figlia maggiore Veronica, simpatizzante dei movimenti studenteschi antigovernativi. Ad essere portato via da casa, un giorno in fretta e furia, da un manipolo di sconosciuti armati, è invece Rubens. Non farà mai più ritorno.

Il regista Walter Salles era amico dei bambini Paiva e conosceva bene la loro casa. Abituato ai grandi spazi della sua terra, e a dimostrare il proprio talento visivo nella rappresentazione di viaggi e paesaggi, qui si muove per la maggior parte del tempo nello spazio chiuso di quella casa impressa nella memoria, e al limite della strada di fronte e della spiaggia adiacente, ma allo stesso tempo racconta un paesaggio famigliare e affettivo meravigliosamente ampio.

La porta sulle spalle e sul volto l’attrice Fernanda Torres, che si fa contenitore in carne e ossa della dignità della persona reale che rappresenta; ma non è da meno il cast di contorno (le figlie, la domestica). Un mondo che vive e sopravvive a una ferita privata che è anche pubblica, della nazione.

Salles si serve della sua brava inteprete principale e di tutta la squadra attoriale per evitare a tutti i costi il melodramma: donna Eunice non cede, non crolla, non urla, piuttosto sorride. Ne esce un film teso e composto, che mira alla testa più che alla pancia.

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Lunedì 21 luglio – NO OTHER LAND

No Other Land

Regia di Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor Genere Documentario, – Palestina, Norvegia, 2024, durata 96 minuti.

Masafer Yatta è un agglomerato di venti villaggi al confine sud della Cisgiordania. In questa comunità, che si regge su un’economia di tipo agricolo, alcuni villaggi sono così antichi che conservano ancora alcune grotte, tuttora abitate. Purtroppo, perché le nuove case edificate vengono sistematicamente distrutte dalle ruspe. Il primo ricordo di Basel Adra, che qui è nato nel 1996, è l’arresto di suo padre, mentre protestava contro gli espropri voluti dallo Stato di Israele, che di quel territorio sostiene di aver diritto di fare zona di addestramento militare. Una violenza che va avanti da decenni, e che Basel e altri hanno iniziato a filmare autonomamente, a rischio della propria vita. Per mostrare al resto del mondo, tramite quelle testimonianze video strazianti e inequivocabili, l’ingiustizia e l’oppressione che continuano a subire. Anche Yuval Abraham, giornalista israeliano e amico di Basel, scrive delle demolizioni, sperando di attirare l’attenzione, dentro e fuori la sua nazione. Ma mentre gli israeliani possono muoversi liberamente, gli abitanti di Masafer Yatta non possono lasciare la Cisgiordania. “Non abbiamo un altro posto dove andare”, dice una vicina di Basel, “soffriamo così perché è la nostra terra”.

Le loro riprese si estendono tra l’estate del 2019 e ottobre 2023. Si sono concluse quindi a ridosso dell’attacco di Hamas e della conseguente reazione israeliana, ancora in corso al momento in cui scriviamo. Ma il film, seguendo i ricordi di Basel, incorpora molti video registrati precedentemente da lui o da persone a lui vicine, con telefoni cellulari e piccole videocamere. No Other Land è un repertorio impressionante, mai visto prima, di azioni repressive ai danni di una comunità inerme che trova i modi per resistere, ricostruire, non reagire con la violenza. Ha un valore altissimo di testimonianza, anche retrospettiva. Si accumulano nel film sequenze “rubate”, non programmate ma dettate dall’agenda militare: qualcuno corre con una camera in mano, per assicurare le prove di un sopruso e cercare al tempo stesso di schivare i proiettili. È quasi sempre Basel, a correre, col fiato corto e l’adrenalina di chi sa di mettere a rischio la propria vita. È l’immagine stessa, lo stilema, del caos e della violenza che il conflitto israelo-palestinese continuano a propagare da decenni.

Alle riprese delle demolizioni e delle incursioni militari sul territorio il film alterna stilemi narrativi semplici: momenti di re-enactement, riflessione condivisa tra Basel e Yuval, situazioni domestiche, pasti condivisi, le pause prima di addormentarsi, sempre in allerta per una possibile incursione di mezzi cingolati e truppe armate. Il semplice contrasto, paradossale, tra le esistenze di questi due coetanei e la forza – o forse meglio sarebbe dire la capacità – d’immedesimazione fa tutto il resto, al di qua dello schermo (“come ti sentiresti se distruggessero casa tua?” chiede Yuval in ebraico ai connazionali incursori). L’immedesimazione è ciò che in cui sperano i due amici e colleghi, e i loro due co-registi: continuare a mostrare, scrivere, testimoniare, per provocare in una reazione, oltre la commozione. Perché chi guarda possa sentirsi chiamato in causa. Per cambiare le cose. Tra i molti premi raccolti lungo il 2024, No Other Land ha vinto l’ Audience Award e il Panorama Documentary Award alla Berlinale ed è stato votato Miglior documentario europeo agli EFA 2024. È in shortlist nella categoria documentari agli Academy Awards 2025.

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Domenica 20 luglio – L’ORTO AMERICANO

L’orto americano

Regia di Pupi Avati. Con Filippo Scotti, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Chiara Caselli, Rita Tushingham. Genere Drammatico, – Italia, 2024, durata 107 minuti.

Bologna, nei giorni della Liberazione: un ragazzo vede entrare dal barbiere una nurse dell’esercito americano e se ne innamora all’istante. Lei è diretta a Ferrara, lui pensa di aver incontrato la donna che aspettava da sempre. Iowa, 1946: il ragazzo è diventato uno scrittore che si appresta a scrivere il romanzo della sua vita, ambientato in parte in America. Una notte sente chiedere aiuto da una voce proveniente dall’orto abbandonato dei vicini, dalla cui casa è scomparsa la giovane Barbara, proprio la nurse della quale si era innamorato in Italia. Scavando nel terreno nel punto dal quale proviene la voce Lui trova un vaso pieno di un liquido opaco con un’etichetta che fa riferimento ai genitali femminili. È l’inizio di una ricerca che porterà il giovane uomo ad Argenta, in provincia di Ferrara, sulle tracce della nurse che non ha mai dimenticato, e del folle che uccide le donne per asportarne e conservarne in formaldeide l’apparato genitale.

La vicenda narrata è misteriosa, anche perché sembra alludere ad un limite sfumato fra realtà e follia, immagini concrete e visioni fantasmagoriche dal possibile risvolto psichiatrico. La fotografia in bianco e nero di Cesare Bastelli racconta molto efficacemente le campagne dell’Emilia-Romagna, ricreando le atmosfere gotiche e nebbiose delle quali Pupi Avati è cantore, e che sono il teatro ideale per una vicenda di perversioni e cacce alle streghe ambientate nella provincia padana.

Anche le facce sono quelle giuste, da quella enigmatica del protagonista, ben interpretato da Filippo Scotti (il Fabietto di È stata la mano di Dio), a quelle “antiche” di Roberto De Francesco, Massimo Bonetti, Andrea Roncato o la veterana attrice inglese Rita Tushingham. Colpisce soprattutto l’interpretazione di Armando De Ceccon nel ruolo di Glauco Zagotto, che sembra contenere l’eco di quella di Spencer Tracy in Furia.

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Sabato 19 luglio – SOTTO LE FOGLIE

Sotto le foglie

Regia di François Ozon. Con Josiane Balasko, Garlan Erlos, Hélène Vincent, Ludivine Sagnier, Pierre Lottin. Titolo originale: Quand vient l’automne. Genere Drammatico, – Francia, 2024, durata 102 minuti.

Michelle ha tre passioni: suo nipote Lucas, la sua migliore amica Marie-Claude e i funghi che raccoglie nei boschi di un piccolo villaggio della Borgogna. La sua unica afflizione è Valérie, figlia ingrata che le rinfaccia il passato – Michelle è un’ex prostituta – e troppo amore per suo figlio. Un incidente a tavola e una quiche di funghi tossici dopo, un equilibrio già fragile si rompe. Valérie accusa Michelle di averla deliberatamente avvelenata e le impedisce d’ora in avanti di rivedere Lucas. A rimettere le cose a posto ci pensa Vincent, figlio di Marie-Claude appena uscito di prigione. Le sue intenzioni sono buone ma scatenano una tragica spirale.

Una storia di ottuagenarie, di funghi, di omicidi e di fantasmi. Forme di vita brulicano in un ambiente umido e pulsioni feroci crescono nel cinema francese d’autore, che raccoglie funghi e registra nello stesso anno due film velenosi, crudeli ma soprattutto vitali: Sotto le foglie (François Ozon) e L’uomo nel bosco (Alain Guiraudie). Ozon e Guiraudie condividono un’identità generazionale, sono nati a metà degli anni Sessanta ed esplosi alla fine degli anni Novanta, e un’identità sessuale che infonde sia le loro storie (Gocce d’acqua su pietre roventi, Lo sconosciuto del lago…) che la loro estetica (la questione dello sguardo queer).

Ma potremmo dire al contrario che molto li distingue: il gusto di Ozon per l’eterogeneità, la varietà di generi e stili contro la creazione di un mondo altamente identificabile per Guiraudie, la capacità del primo di infiltrare tutti i livelli dell’industria, contro la permanenza del secondo nel cinema indipendente. Eppure le loro opere interagiscono. Ficcate nella Francia rurale (rispettivamente Borgogna o Aveyron) moltiplicano le corrispondenze: l’identità dei personaggi (una madre anziana e vedova che sposta il desiderio materno dal figlio a un’altra persona e un figlio adulto non amato che scompare brutalmente), l’identità di genere (una macabra commedia poliziesca, tranquillamente amorale, dove il crimine sfugge al giudizio e alla punizione umana) e l’identità di simboli (il fungo).

L’intera rete di significati dei due film, le emozioni che trasmettono e lo stato d’animo che li caratterizza si riassumono in un organismo vegetale che cresce dove vuole, non si coltiva e appartiene decisamente al mondo selvatico. Come il desiderio, i funghi possono curare, nutrire o uccidere. La prossimità tra varietà commestibili e letali diventa per Ozon il sintomo perfetto dell’ambiguità dei suoi personaggi, a partire dalla madre di Hélène Vincent, nutriente e tossica insieme, che quasi uccide la figlia avvelenandola con una torta salata.

Incidente o atto volontario, Sotto le foglie avvolge la sua eroina in un’aura di opacità, sollevando domande destabilizzanti sui legami di sangue. Un rapporto che François Ozon spingerà verso una sorta di riconciliazione profondamente commovente, iniettando una dose omeopatica di fantasia in una storia inverosimile ma a suo modo realistica.

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Venerdì 18 luglio – QUEER

Queer

Regia di Luca Guadagnino. Con Daniel Craig, Drew Starkey, Lesley Manville, Jason Schwartzman, Henry Zaga. Genere Drammatico, Biografico, – Italia, USA, 2024, durata 135 minuti.

Nella Città del Messico dei primi anni cinquanta, l’americano William Lee vaga da un bar all’altro alla ricerca di uomini da portarsi a letto, nel frattempo facendo ampio uso di droghe e alcool. Nonostante un ristretto gruppo di conoscenze abituali, che comprendono il fidato amico Joe, Lee è alla ricerca di qualcosa che questi incontri occasionali non possono dargli. Un giorno però si imbatte per strada in Eugene, giovane e bello, forse gay, forse no. I due si imbarcano in una frequentazione che li porterà anche alla ricerca di una pianta, lo Yage, in grado di stimolare le abilità telepatiche.

Ormai fermamente parte dello zeitgeist internazionale, nello spazio di un anno dà seguito al giocoso e pulsante Challengers con un adattamento letterario dell’amato William S. Burroughs. La sua lettura di “Queer” è pensosa, sentimentale e immaginifica – più dell’opera originale della quale prosegue la storia troncata aprendo le porte della percezione; ma tra droghe magiche e spedizioni esotiche, il film ci ricorda che tali porte si rivelano spesso uno specchio, pronto a riflettere la profondità della nostra solitudine.

Lee è l’alter-ego di Burroughs, predatore dissoluto che, in un completo a tre bottoni bianco con tanto di fondina alla cintura, pattuglia i locali della città (nettamente più tranquilla e composta, quasi idilliaca nei suoi quadretti di strada e tramonti perfetti, di quella vissuta in prima persona da Burroughs) alla disperata ricerca del giusto amante: giovane, bello, e possibilmente non un bravo ragazzo ebreo troppo legato alla mamma. Lo interpreta un Daniel Craig dall’animo strizzato, molto più vulnerabile rispetto ad altri ruoli extra-Bond che semplicemente viravano la sicumera su toni comici o autoironici. Guadagnino ne ingentilisce i contorni, o forse si mette fino in fondo nei suoi panni, trovando un uomo alla ricerca di contatto umano che nell’attesa passa da una dipendenza all’altra.

Accarezzarsi senza toccarsi (in un tenero, ripetuto congegno visivo che sovraimpone il gesto alla stasi) e poi comunicare senza la parola, tanto da giustificare un viaggio nel Sudamerica profondo alla ricerca della telepatia: la tragedia di Queer, che smania sotto la satira iniziale sulla cultura americana expat, è quella di un amore sfalzato, asimmetrico. Lo rendono irrisolvibile questioni identitarie (siamo queer oppure no, è il leitmotiv che corre attraverso tutto il film) ma anche pragmatiche, visto che Eugene si offre e si ritrae, e alla fine accetta di seguire Lee nel viaggio previo un preciso accordo sui termini della sua disponibilità.

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Giovedì 17 luglio – LE DÈLUGE – GLI ULTIMI GIORNI DI MARIA ANTONIETTA

Le dèluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta

Regia di Gianluca Jodice. Con Guillaume Canet, Mélanie Laurent, Aurore Broutin, Hugo Dillon, Tom Hudson. Titolo originale: Le Déluge. Genere Drammatico, Storico, – Italia, Francia, 2024, durata 101 minuti.

Luigi XVI e Maria Antonietta vengono condotti alla Tour du Temple dove verranno rinchiusi in attesa del processo che poi li condurrà alla morte. Lo scorrere dei giorni fa emergere i diversi atteggiamenti nei confronti di quanto sta accadendo evidenziando i caratteri di ognuno. L’attesa di una fine ineluttabile letta indagando su ruoli pubblici e psicologie individuali. A Luigi XV viene attribuita la frase “Dopo di me il diluvio”. Questa sembra poter essere la chiave di lettura di un film coraggioso come quello di Gianluca Jodice.

Altrettanto coraggio mette in gioco in un film tripartito in cui, in ognuno dei capitoli, utilizza la camera e le luci in maniera diversa ottenendo un risultato estetico di tutto rilievo. La scelta poi di basarsi sui diari di Cléry, valletto del re a cui venne concesso di accompagnare la famiglia reale nella detenzione, offre lo spunto per uno sguardo dall’interno per un film che inizia dove solitamente tutti gli altri che si sono occupati di questo re e di questa regina si avvicinano alla conclusione.

Grazie alle consistenti protesi che lo rendono irriconoscibile Guillaume Canet offre al suo Luigi la possibilità di affrontare con innumerevoli sfumature la trasformazione da maschera a volto. Lo si osservi nella sequenza iniziale quando scende dalla carrozza già prigioniero ma sentendosi ancora re sia nell’incedere che nella possibilità di non usare parole per far valere la propria autorità. Lo si segua poi nei momenti che ce lo mostrano infantile, nei tentativi di negare la realtà per poi osservarne le posture finali.

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Mercoledì 16 luglio – FUORI

Fuori

Regia di Mario Martone. Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi. Genere Drammatico, – Italia, Francia, 2025, durata 115 minuti.

Roma, 1980: la scrittrice Goliarda Sapienza è appena uscita dal carcere, dove è stata rinchiusa per aver rubato e rivenduto dei gioielli. Ora che è fuori, deve trovarsi un lavoro per impedire lo sfratto dal suo appartamento, e cerca di tutto, compresi incarichi di cameriera e domestica, perché le sue collaborazioni come correttrice di bozze e giornalista non sono sufficienti. Nel cassetto ha il manoscritto di “L’arte della gioia”, che sarà pubblicato solo postumo e osannato a livello internazionale: ma al momento nessuno lo vuole (e in Italia nessuno lo pubblicherà fino a dopo l’enorme successo oltralpe). Nel tempo sospeso dopo la sua scarcerazione Goliarda trova conforto solo nella presenza di due ex compagne di carcere, Roberta e Barbara, l’una arrestata per motivi politici, l’altra per aver aiutato un malvivente di cui è innamorata.

Il resoconto ha forti richiami con la parabola della protagonista del romanzo “L’arte della gioia” nel personaggio di Roberta, una sorta di Modesta di inizio anni Ottanta, la stagione post anni di piombo che ancora ne conserva la volontà eversiva ma ha già perso la speranza di cambiare il mondo. Anche Roberta è capace di tutto, un cavallo selvaggio cui è impossibile mettere le briglie, e Goliarda l’ama per questo, considerandola un po’ figlia scapestrata e un po’ un suo alter ego più disinibito e coraggioso.

Valeria Golino, che conosce a fondo la figura di Sapienza anche per averla a lungo studiata in preparazione alla sua regia della serie L’arte della gioia, ne coglie alla perfezione l’elusività e lo straniamento, vagando per il film peripatetico diretto da Mario Martone e da lui scritto insieme a Ippolita di Majo con la sensazione palpabile di una non appartenenza, non alla sua epoca o al suo contesto, ma all’esistenza tutta, e del suo sentirsi molto più affine alle carcerate che ai frequentatori dei salotti dell’intellighenzia. La sua Goliarda ha fame di vita (oltre che tentazioni di morte) e trova in Roberta e Barbara, rumorose, sopra le righe e sfacciate, le portavoce del suo grido inespresso.

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Martedì 15 luglio – FOLLEMENTE

Follemente

Regia di Paolo Genovese. Con Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi. Genere Commedia, – Italia, 2025, durata 97 minuti.

Romeo è tenero e romantico, Valium folle e paranoico, Eros arrapato e sensuale, il Professore razionale e giudicante. No, non sono esseri umani, ma personalità che abitano la mente di Piero, insegnante di Storia e Filosofia recentemente divorziato e con una figlia piccola, intenzionato a rimettersi in gioco con le donne ma ancora scottato dalle delusioni del passato. Giulietta è romantica e sognatrice, Trilli istintiva e sexy, Alfa ideologica e disciplinata e Scheggia irrazionale e istintiva. E anche loro non sono persone reali, ma parti della personalità di Lara, la giovane donna single reduce dalla relazione infelice con un uomo sposato che vorrebbe un partner affidabile che l’aspetti sotto casa, e invece tende a cadere nella trappola di amori senza futuro.

Lara e Piero si incontrano per il loro primo appuntamento, si piacciono ma non osano confessarlo (nemmeno a se stessi), incartandosi su ogni dettaglio, impegnati ad ascoltare le voci interiori delle loro rispettive personalità. Riusciranno a zittire quel chiacchiericcio incessante e a trovare la strada verso una relazione finalmente appagante?

Ne deriva un fuoco di fila di battute di un’ora e mezza, con un cast di attori ben noti al pubblico, ognuno intento ad incarnare un aspetto ben definito del “carattere” maschile o femminile, e a far entrare in contraddizione la coppia centrale interpretata da Edoardo Leo e Pilar Fogliati.

L’idea ricorda il film di animazione Inside Out, ma qui non si tratta di emozioni bensì di tratti comportamentali. Ovviamente a far ridere sono soprattutto Trilli ed Eros (Emanuela Fanelli e Claudio Santamaria) così come Valium e Scheggia (Rocco Papaleo e Maria Chiara Giannetta), mentre a Giulietta e Romeo (Vittoria Puccini e Maurizio Lastrico) tocca la parte più commovente e al Professore e Alfa quella più rigidamente raziocinante.

L’energia cinetica fra gli attori funziona, così come funziona il copione scritto a cinque mani dal regista Paolo Genovese (anche autore del soggetto) con Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi, che immaginiamo seduti intorno a un tavolo fare a gara per tirare fuori la battuta più divertente. Al fondo c’è qualcosa di meccanico, come c’era anche nel più grande successo di Genovese, quel Perfetti sconosciuti di cui sono stati fatti un numero record di remake internazionali. Ma l’idea è divertente, e lo sviluppo è attento ad incorporare le nuove (iper)sensibilità maschili e femminili in tema di rapporti sentimentali, nonché a preservare la componente romantica di quella che vorrebbe diventare una storia d’amore, nonostante tutto.

I momenti più riusciti sono un orgasmo trionfale che unisce tutte le voci interiori in un unico coro, e l’incontro improvviso fra le personalità maschili e femminili che comporta un mescolarsi del cast, fino a quel momento schierato su opposte barricate. FolleMente è un film dichiaratamente da grande pubblico che beneficerà della reazione collettiva a situazioni (anche dolorosamente) familiari e sfacciatamente comiche, riflettendo quelle esitazioni che caratterizzano le relazioni contemporanee (“Verso io o versi tu?”, “Femminismo o galateo”? Senso di responsabilità o istinto animale? Sincerità o mistero?).

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