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Sabato 12 luglio – LA GAZZA LADRA

La gazza ladra

Regia di Robert Guédiguian. Con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Grégoire Leprince-Ringuet. Titolo originale: La Pie voleuse. Genere Commedia, – Francia, 2024, durata 101 minuti.

Maria ama le ostriche, la musica classica e il suo nipotino, che dimostra un talento precoce per il pianoforte. Decisa a farne un pianista ad ogni costo, ha noleggiato un piano verticale e assoldato il maestro migliore di Marsiglia per dargli lezioni private. Ma Maria non ha i mezzi per sostenere queste spese e come la “gazza” di Rossini ruba la vita che luccica e fa la cresta sulla spesa dei suoi clienti, persone anziane di cui si occupa amorevolmente. La devozione la spinge però un po’ troppo lontana, firmando assegni che non potrà restituire. Un accidente scopre il suo gioco ma sotto il sole di L’Estaque qualcuno la ama e la solleva dai guai.

All’estremo nord di Marsiglia, in riva al mare, sorge come un sole il villaggio di L’Estaque, oggi 16° arrondissement della città.

Ed è questo senso di lealtà incrollabile che rende la sua filmografia così avvincente. Anche i temi restano gli stessi, la precarietà economica e sociale, la solidarietà confrontata ai drammi della vita, la ricerca della luce in fondo al tunnel, l’umanesimo luminoso malgrado la violenza delle società umane.

La gazza ladra non fa eccezione ma come il film precedente, E la festa continua!, cede a una morbidezza mai conosciuta prima. Se Rosa (E la festa continua!) doveva decidere se perseverare nel suo impegno civico o iniziare il processo di disimpegno, votandosi a un nuovo amore, Maria rilancia aggiungendo a quell’esitazione una nota gaudente, quasi inedita in Guédiguian.

Dal principio il suo cinema si muove seguendo impulsi opposti, uno politico, l’altro lirico, non sempre conciliabili, da qui la malinconia che gli è consustanziale. Quella malinconia, che prende una piega tragica dentro melodrammi senza scampo (La casa sul mare, Gloria Mundi), infestati dalla morte, dal fallimento e da un senso di disastro sociale, si converte in una brezza leggera che soffia dal Mediterraneo, linea di fuga di ogni appartamento che lo scorge, anche il più modesto.

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Venerdì 11 luglio – PATERNAL LEAVE

Paternal Leave

Regia di Alissa Jung. Con Juli Grabenhenrich, Luca Marinelli, Arturo Gabbriellini, Gaia Rinaldi, Joy Falletti Cardillo. Genere Drammatico, – Germania, Italia, 2025, durata 113 minuti.

Quando scopre di avere un padre italiano, l’adolescente tedesca Leo prende il primo treno per l’Italia, smaniosa di conoscerlo. Incontrerà Paolo, un uomo sorpreso e impaurito, che non sa minimamente come rapportarsi a lei e come giustificare un’assenza così importante dalla sua vita. Nel frattempo Leo stringerà amicizia con Edoardo, un ragazzo incompreso dal padre violento, e con la piccola Emilia, altra figlia – questa volta riconosciuta e considerata come tale- di Paolo.

Inadeguato, vulnerabile, irrisolto, non ha la minima idea di come reagire quando si ritrova davanti Leo, la figlia tedesca adolescente mai conosciuta. La interpreta in modo convincente e misurato Juli Grabenhenrich, anche lei al suo debutto sullo schermo. Il rapporto tra Leo e Paolo è da subito altalenante, complicato, fatto di improvvisazioni, goffaggini, recriminazioni e paure. Paura dell’ennesimo rifiuto da parte della figlia, che non capisce come mai suo padre non abbia voluto conoscerla e crescerla. Come mai non abbia voluto farle da padre, mentre con la piccola Emilia, nata da una nuova relazione, sembra riuscirci. Paura anche da parte del padre, perché Paolo non sa proprio che pesci prendere.

Troppo semplice liquidarlo come “immaturo”, è un uomo poco incline ad assumersi le proprie responsabilità e molto tendente alla fuga. Ma scappare può essere una soluzione momentanea, non è mai risolutiva, la paura deve essere affrontata.

Ecco che il coming of age diventa di entrambi, figlia e padre, adolescente e adulto in formazione a confronto, dentro un doloroso gioco di specchi che la regista ha il merito di portare sullo schermo con sobrietà, misura e senza retorica. A parte qualche urlo di troppo alla Muccino, funziona il racconto di questo rapporto tutto da costruire che si nutre di paste improvvisate, canzoni, bagni, illustrazioni di tatuaggi, sorrisi e silenzi condivisi.

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Giovedì 10 luglio – ANORA

Anora

Regia di Sean Baker (II). Con Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Yuriy Borisov, Karren Karagulian, Ivy Wolk. Genere Drammatico, – USA, 2024, durata 138 minuti.

Anora detta Ani è una ballerina erotica americana di origine russa esperta in lap dance che porta i clienti nei privé offrendo loro servizi extra a pagamento Un giorno nel locale dove lavora arriva Ivan, un ragazzo russo che pare entusiasta di lei e dei suoi molti talenti. Il giorno dopo Ivan invita a casa sua, e Ani scopre che il ragazzo vive in una megavilla ed è figlio unico di un oligarca multimiliardario. Le cose fra i due ragazzi vanno così bene che Ivan porta Ani a Las Vegas e là le chiede di sposarlo. Ma i genitori di lui non sono affatto d’accordo, e mandano una piccola “squadra di intervento” a recuperare il figlio dissennato. Quella che seguirà è una rocambolesca avventura ricca di sorprese , che tuttavia non dimentica di avere un cuore e un occhio alla realtà anche all’interno dell’esagerazione comica.

Mikey Madison, già apparsa in Once Upon a Time in Hollywood, tiene magnificamente la scena nei panni della protagonista, disincantata ma non priva di speranza, realista ma non priva di sogni, irriducibile e mai incasellabile in qualche facile stereotipo. Accanto a lei c’è un gruppo di magnifici interpreti maschili, fra cui spiccano l’irresistibile giovane attore russo Mark Eydelshteyn (una versione più genuina e divertente di Timothée Chalamet nel ruolo di Ivan) e il veterano attore armeno Karren Karaguilian (atore feticcio di Baker qui nei panni di Toros, il padrino di Ivan). Il più bravo è come sempre il russo Yura Borisov (il “gopnik” Igor), già apprezzato in Scompartimento n. 6 e in Captain Volkogonov escaped, cui spetta qui una delle risposte più belle riguardo alla violenza sulle donne.

Il gioco iniziale è quello di raccontare una storia alla Pretty Woman, di cui Anora cita sia uno degli scambi di battute più iconici (“Avrei accettato per duemila” “Sarei arrivato a quattro”) che il nome di Cenerentola abbinato ad una parolaccia, sia infine l’imperativo della protagonista di non baciare sulla bocca i suoi clienti.

Ma la storia di Anora prende tutt’altra piega e dà spazio alle dinamiche fra i personaggi, anche loro apparentemente classificabili secondo le maschere ricorrenti del cinema americano e invece mai così scontati. E il pericolo reale che Ani correrà nel corso della storia è ad appena mezzo grado di separazione dallo svolgimento comico della vicenda narrata.

La regia ricorda lo Scorsese muscolare dei “bravi ragazzi” (la fotografia, come in Red Rocket, è di Drew Daniels), il montaggio è concitato ma fluido, la sceneggiatura vivace e piena di battute perfette per i personaggi che le pronunciano, perché Anora è uno di quei rari film contemporanei in cui contano in egual misura l’azione e i caratteri, anzi, l’azione è una diretta conseguenza delle personalità in scena, che sono coerenti nel loro sviluppo e non interagiscono mai a casaccio, nemmeno nell’hellzapoppin che si viene a creare.

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Mercoledì 9 luglio – IL MAESTRO E MARGHERITA

Il Maestro e Margherita

Regia di Michael Lockshin. Con Claes Bang, August Diehl, Yuliya Snigir, Yuri Kolokolnikov, Yuriy Borisov. Genere Drammatico, – Russia, 2024, durata 157 minuti.

Mosca anni ’30, sotto il regime di Stalin. Il Maestro, uno scrittore di talento, si trova ricoverato in una clinica dove è sottoposto a trattamento forzato. Un anno prima la sua pièce teatrale, “Pilato”, è stata bollata come opera reazionaria e censurata. La sua carriera è distrutta. È emarginato nell’ambiente, gli viene revocata la tessera degli scrittori e gli restano pochissimi legami. L’incontro con Margherita, una donna sposata che lo ha subito folgorato, gli ridà quella carica creativa per un nuovo romanzo dove Mosca è visitata dal diavolo, Woland, una figura inquietante che gli è apparso come un enigmatico turista tedesco ed è accompagnato dai suoi servitori. Da questo momento non c’è più nessun confine tra realtà e immaginazione. La mente del Maestro è sempre più dipendente dalla figura di Woland che diventa il suo interlocutore. Nel frattempo, la sua salute mentale peggiora.

In questa nuova versione di “Il maestro e margherita”, il cinema entra nel mondo nel romanzo, attraversa le diverse linee temporali, i confini sempre meno netti tra realtà e immaginazione e soprattutto privilegia lo sguardo del Maestro e di Woland, visioni soggettive contrapposte ma anche complementari.

I loro personaggi portati rispettivamente sullo schermo da Evgeniy Tsyganov e August Diehl (attore tedesco che è stato diretto, tra gli altri, da Tarantino, Malick e Zemeckis) sono come quelli di due cineasti che mettono in scena la loro versione del romanzo. Con la sola differenza che, rispetto al regista, non fanno parte soltanto della storia ma ne sono completamente immersi. È un po’ lo stesso tipo di sdoppiamento che c’è stato tra Bulgakov e il Maestro. Il protagonista appare come un continuo riflesso dello scrittore, che ha avuto spesso problemi con la censura sovietica ed è stato isolato nel suo ambiente letterario.

In più nel film c’è la faticosa gestazione della scrittura, la stessa che ha caratterizzato la stesura del romanzo da parte di Bulgakov che lo ha iniziato nel 1928 al 1940 (anno della sua morte) ed è stato pubblicato postumo per la prima volta dalla vedova tra il 1966 e il 1967 in una rivista di Mosca ma con i tagli della censura. La prima versione integrale, dove erano incluse anche le parti rimosse, è uscita a Francoforte nel 1969 e da quel momento è stato tradotto in tutto il mondo.

Delle diverse trasposizioni cinematografiche, tra cui quella più celebre è del 1972 diretta dal regista serbo Aleksandar Petrovic con Ugo Tognazzi nel ruolo del Maestro e Mimsy Farmer in quello di Margherita, questa è oggi quella più politica, legata al ruolo degli artisti nella Russia di Putin.

In più, alcuni temi come quelli della censura, del potere e il legame tra paura e libertà sono di stretta attualità. È ambientato negli anni ’30 ma è come se si svolgesse nel presente. Il maestro e margherita, inoltre, sarebbe dovuto uscire nel 2022 ma poi è stato posticipato dopo la decisione della Universal di abbandonare i progetti russi in seguito all’invasione dell’Ucraina. Ha avuto delle pressioni da parte della censura, è stato attaccato dai propagandisti russi che lo hanno accusato di essere critico nei confronti della guerra in Ucraina, ma in sala ha sbancato al botteghino diventando uno dei maggiori successi commerciali degli ultimi anni nel proprio paese.

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Martedì 8 luglio – THE LAST SHOWGIRL

The Last Showgirl

Regia di Gia Coppola. Con Pamela Anderson, Kiernan Shipka, Brenda Song, Billie Lourd, Jason Schwartzman. Genere Drammatico, – USA, 2025, durata 88 minuti.

Shelly Gardner era una leggenda a Las Vegas, la star dello spettacolo Le Razzle Dazzle nato negli anni Ottanta. Ma ora lo show sta per chiudere definitivamente, per lasciare il posto ad un circo. Come potrà Shelly, che conosce solo il Razzle Dazzle per cui si esibisce da sempre, guadagnarsi da vivere altrove? E che ne sarà delle sue aspirazioni artistiche, ancora ben presenti nel suo immaginario personale? Per di più Shelly ha affidato sua figlia Hannah ad una famiglia-ospite che risiede a Tucson, e ora la ragazza non la chiama più mamma, poiché porta in sé il risentimento sordo per essere stata abbandonata in nome delle luci del varietà e dei lustrini che adornando il corpo (discinto) delle ballerine di Las Vegas. È valsa la pena per Shelly rinunciare a sua figlia e a una vita normale, con la pensione e l’assicurazione sanitaria, per quel mondo che ora la lascia senza soldi e senza futuro?

Il film racconta una serie di figure femminili – non solo Shelly, anche la cameriera dei casinò Annette (una Jamie Lee Curtis totalmente “cringe” e totalmente priva di ego) o la giovane soubrette che vede in Shelly una madre putativa perché la sua l’ha ripudiata – e una figura maschile – il malinconico manager Eddie (Dave Bautista): tutte comparse in un universo di finzione che le luci del giorno rivelano nel suo squallore, ma quelle della notte fanno brillare come un diamante (farlocco).

Grande protagonista è Pamela Anderson in un ruolo metacinematografico: la ricordiamo come la bagnina più desiderata della serie Baywatch e la ritroviamo 57enne ancora bellissima ma sfiorita, un pallido ricordo della star che è stata tanto nella vita quanto nella finzione. Per Anderson (come per Mickey Rourke in The Wrestler) questo film è un ritorno alla celebrità, e una dimostrazione della propria abilità di interprete, disposta anche a mostrare cicatrici reali. Il mondo di Shelly è esposto nella sua crudeltà e pochezza, ma per lei è tutto, e il film coraggiosamente non le chiede di “redimersi”, o di rinnegare il suo desiderio di primeggiare in palcoscenico, di “sentirsi guardata e bella”, e di inseguire i suoi sogni anche a discapito di una figlia, comunque amata.

Laddove Anderson è stata candidata a premi importanti (e Aronofsky con The Wrestler ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia), la regia di Gia Coppola è stata ampiamente sottovalutata. Coppola, anche sceneggatrice, segue la sua protagonista e le sue amiche con tenerezza e rispetto, spesso armata di camera a mano per riprodurre la concitazione caotica dello show business, e riflette una morbidezza di sguardo mai stucchevole, sentimentale o condiscendente, filtrando i colori estremi di Las Vegas in modo radicalmente diverso rispetto alla palette di Sean Baker.

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Lunedì 7 luglio – L’ORCHESTRA STONATA

L’Orchestra Stonata

Regia di Emmanuel Courcol. Con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco, Jacques Bonnaffé, Clémence Massart-Weit. Titolo originale: En fanfare. Genere Commedia, – Francia, 2024, durata 103 minuti. Distribuito da Movies Inspired.

Celebre direttore d’orchestra, il quarantenne Thibaut scopre di essere malato di leucemia e di avere bisogno di un donatore di midollo osseo. Facendo indagini sulla compatibilità dei familiari viene a sapere di essere stato adottato e di avere un fratello di sangue, Jimmy, più giovane e proveniente dal nord della Francia. Diversi per carattere ed estrazione sociale, i due impareranno a conoscersi e a volersi bene, uniti dalla passione per la musica. E quando Thibaut scopre che Jimmy ha l’orecchio assoluto, lo spinge a diventare il direttore della banda musicale nella quale suona il trombone…

La dote principale del cinema francese – quando scritto, recitato, confezionato con impeccabile abilità come nel caso di En fanfare – è quella di saper gestire con apparente naturalezza elementi eterogenei. Emmanuel Courcol, in passato autore dell’ottimo Weekend, parte dal dramma medico, passa alla vicenda famigliare dell’incontro tra i due fratelli adottati, poi allo scontro sociale fra i due protagonisti (uno borghese, l’altro proletario, uno realizzato, l’altro fallito) e infine arriva addirittura al racconto militante e sociale, con l’accenno alla crisi economica del nord e alle proteste operaie per la chiusura delle fabbriche… A fare da trait-d’union è naturalmente la musica, anch’essa connotata in modo duplice, raffinata e orchestrale nel caso di Thibaut, immediata e grezza, da fanfara per l’appunto, in quello di Jimmy, ma capace di avvicinare i due fratelli.

Grazie anche all’opposta, perfetta interpretazione di Benjamin Lavernhe (Thibaut) e Pierre Lottin (Jimmy), il primo sensibile e un po’ supponente nella scoperta di un mondo infinitamente distante dal suo, il secondo istintivo e umorale, desideroso di riscatto ma troppo orgoglioso per ammetterlo, il film alterna vari registri senza perdere il controllo della materia. Mai patetico o all’opposto manipolatorio (nonostante ci siano tutti gli elementi del caso, dalla relazione di Jimmy con una collega alla simpatia di un ragazzo down membro dell’orchestra), En fanfare dimostra limiti proprio in una scrittura fin troppo controllata. Le tante deviazioni della trama aiutano a evitare la trappola del risaputo (a un certo punto, ad esempio, il film potrebbe diventare una sorta di nuovo Grazie, Signora Thatcher…), ma rischiano anche di trasformare molti passaggi in piste narrative vuote: eppure Courcol sa giocare di dettagli, crea piccole, splendide scene rivelatrici (il furto della foto della madre in una palestra, l’incontro con la figlia di Jimmy, il ruolo della sorella acquisita di Thibaut…) e dà al suo film un passo da cinema popolare che arriva con naturalezza al finale corale, in cui le opposte idee di musica rappresentate dall’orchestra e dalla banda trovano un terreno d’intesa nel ritmo travolgente del Bolero di Ravel.

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Domenica 6 luglio – NAPOLI – NEW YORK

Napoli – New York

Regia di Gabriele Salvatores. Con Pierfrancesco Favino, Dea Lanzaro, Antonio Guerra (I), Omar Benson Miller. Genere Drammatico, – Italia, 2024, durata 124 minuti.

Napoli, 1949. Un rombo assordante, e la casa dove la piccola Celestina abitava non c’è più. Con la casa se ne è andata anche la zia della bambina, che è orfana e ha visto partire la sorella maggiore Agnese per la lontana America insieme allo yankee che ha promesso di sposarla. L’unico amico rimasto alla bambina è Carmine, un ragazzino un po’ più grande di lei che vive di espedienti per le strade di Napoli. Carmine incontra George, un gigantesco cuoco afroamericano che lavora su una nave della Marina degli Stati Uniti. Carmine e Celestina finiranno su quella nave diretta a New York, dove la bambina spera di ritrovare la sorella, ma una volta arrivati all’indirizzo indicato da Agnese non la troveranno e intraprenderanno una serie di avventure che coinvolgeranno anche il commissario di bordo della nave Domenico Garofalo, una sorta di Mangiafuoco burbero ma dal cuore tenero.

La storia però pare adatta soprattutto al palato statunitense, poiché Napoli-New York ribadisce tutti gli archetipi (e talvolta gli stereotipi) sia sull’Italia che sull’America di fine anni ’40 più graditi al pubblico d’oltreoceano.

Tutto ciò che è raccontato in Napoli-New York potrebbe avere un’angolazione più originale, ma Salvatores perde l’occasione di lasciare più spesso una zampata irriverente come l’unica che chiude il film, e che ci fa desiderare che Napoli-New York avesse come trama il concetto, ben enucleato dalla canzone finale, secondo cui “nu guaglione nun se vende ‘a dignità”, e avrebbe potuto raccontare con più “cazzimma” la storia di un Lucignolo nella Terra delle opportunità, dotato di quel tanto di insolenza e refrattarietà alle regole del Nuovo Mondo che avrebbe funzionato da granello nel perfetto ingranaggio dell’American Dream.

Ci sono comunque molte cose buone in Napoli-New York: la regia sicura e competente di Salvatores, la sua abilità nel dirigere i giovanissimi (bravi e intensi Dea Lanzaro e Antonio Guerra), l’estrema cura formale, i colori del sogno americano, il montaggio secco di Julien Panzarasa, la fotografia vintage di Diego Indraccolo (new entry nella squadra Salvatores), e una colonna sonora di brani utilizzati come supporto narrativo che mette insieme Jimmy Durante e la Nuova compagnia di canto popolare. Ottimi, secondo il registro della favola, l’interpretazione di Pierfrancesco Favino e lo strepitoso cammeo di Antonio Catania nei panni del direttore di un quotidiano per la comunità italiana a New York.

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Sabato 5 luglio – LE ASSAGGIATRICI

Le assaggiatrici

Regia di Silvio Soldini. Con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Nicolo Pasetti, Marco Boriero. Genere Drammatico, – Italia, Belgio, Svizzera, 2025, durata 123 minuti.

Rosa Sauer, insieme ad altre sei donne, viene costretta per anni a sedere a tavola per assaggiare il cibo destinato ad Adolf Hitler con lo scopo di verificare che non sia avvelenato. Tra le sette donne, che ogni giorno potrebbero perdere la vita, si intrecciano rapporti che implicano sia la solidarietà che il possibile tradimento.

Premio Campiello nel 2018. La scrittrice era rimasta colpita dalla vicenda reale di Margot Wölk, una segretaria tedesca costretta dal 1942 ad assaggiare il cibo destinato ad Hitler quando risedeva nella “Tana del lupo”. Lo scopo era, ovviamente, quello di evitare un avvelenamento. La donna tenne queste segreto per sé sino quasi alla morte quando decise di parlarne. Postorino non ebbe modo di incontrarla ma, sulla base della sua narrazione, costruì la protagonista del romanzo.

Il cinema di Silvio Soldini ha da sempre prestato una grande e profonda attenzione all’universo femminile, avvicinandolo con curiosità e rispetto per scrutarne le sfumature, anche le meno visibili. In un’intervista di diversi decenni fa ha dichiarato: “A dispetto dei tempi, credo in un cinema che sia ancora capace di uno sguardo particolare e preciso sul mondo”. La sua filmografia mostra e dimostra la conservazione di una mai cedevole coerenza con questo assunto.

È interessante riflettere sul fatto che, ad esempio, il suo ultimo lavoro, prima de Le assaggiatrici, sia stato il documentario Un altro domani in cui si occupava della violenza domestica sulle donne. Compiendo per la prima volta un balzo indietro nel passato, realizzando quindi il suo primo film ‘in costume’, Soldini continua la riflessione sul corpo delle donne violato.

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Venerdì 4 luglio – LA VITA DA GRANDI

La vita da grandi

Regia di Greta Scarano. Con Matilda De Angelis, Yuri Tuci, Maria Amelia Monti, Ariella Reggio, Gloria Cocco. Genere Commedia, – Italia, 2025, durata 96 minuti.

Irene sta per comprare un appartamento a Roma con il suo compagno, ma viene richiamata nella sua città natale, Rimini, per occuparsi del fratello maggiore Omar. Sua madre deve partire per approfondire delle analisi mediche, suo padre l’accompagnerà e occorre prendersi cura di un fratello autistico che ha sogni ambiziosi. Per realizzarli la sorella prova a fargli un “corso intensivo per diventare adulti” che include la scelta di salire o meno sul palco di un talent show a esibirsi e coronare così il desiderio di una vita. Nel frattempo, grazie a Omar, sarà la stessa Irene a capire molto di se stessa e di cosa voglia veramente dalla vita.

Nel suo La vita da grandi mette tutto il suo cuore, la dolcezza e quell’approccio irriverente al mondo che restituisce sullo schermo attraverso la figura di Irene, interpretata al meglio da Matilda De Angelis. Una ragazza carismatica, dallo spirito rock e dalla battuta pronta, che ha scelto un compagno protettivo (Adriano Pantaleo) e una vita lontana dalla famiglia. Ma il nòstos, Omero insegna, è un viaggio inevitabile e pieno di peripezie da cui non si può che tornare cambiati. Specie se si ritorna nella casa abitata da un fratello speciale come Omar. Lo interpreta l’ottimo Yuri Tuci, attore autistico scovato per caso in rete grazie al trailer del suo spettacolo Out is me. Il ritorno di Irene nella sua vita cambierà entrambi, tutti e due dovranno crescere e confrontarsi con “la vita da grandi” del titolo. Ne sintetizza bene il senso Scarano che cofirma anche la sceneggiatura, l’adultità è la capacità di fare delle scelte. Anche sbagliate.

Folgorata dal libro di Damiano e Margherita Tercon (i Terconauti) “Mia sorella mi rompe le balle. Una storia di autismo normale”, Scarano firma una commedia garbata che parla di sogni, legami familiari, inclusione, ma anche chiassose cene familiari davanti al televisore, tra racconti, incomprensioni e recriminazioni (spicca la performance di Maria Amelia Monti, nel ruolo della madre legittimamente apprensiva). Al suo debutto nel lungometraggio la neoregista dimostra di avere già uno stile definito – chi aveva avuto modo di vedere il suo corto Feliz Navidad lo sapeva – e di non aver paura di osare una storia e un tema su cui era facile schiantarsi, sprofondando nella retorica o nel ricatto morale. Questo film riesce a evitare entrambi, puntando tutto sull’ironia e la verosimiglianza della messa in scena (finalmente un cinema italiano lontano dagli agi ostentati dell’alta borghesia, che mostra la quotidianità di famiglie “normali”), rendendo perdonabile a chi guarda qualche ingenuità di scrittura. Tanto è coinvolgente il racconto del legame che si rinsalda tra i due protagonisti, tra conflitti, risate, paure e speranze condivise. Affronteranno anche il tema cruciale per tutti i fratelli del mondo – specie per chi ha sorelle/fratelli con handicap – del “cosa fare dopo la morte dei genitori”.

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Giovedì 3 luglio – THE BRUTALIST

The Brutalist

Regia di Brady Corbet. Con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy. Genere Drammatico, – Gran Bretagna, 2024, durata 215 minuti.

Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi. Gli inizi in America sono difficili, per le necessità economiche e l’impossibilità di poter portare con sé la moglie Erzsébet e la nipote Zsofia, ma grazie al cugino Attila, a László viene commissionata la ristrutturazione di una libreria dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren. Il lavoro di Tóth porta prestigio a Van Buren, che decide di affidargli un progetto mastodontico: la costruzione di un centro culturale e luogo di aggregazione, destinato a ospitare nello stesso edificio biblioteca pubblica, palestra e cappella. Durante il lavoro Tóth incontra molte difficoltà, per le diffidenze verso gli stranieri e per i continui tentativi di alterare il suo progetto originario, ma pur di difendere strenuamente il suo lavoro, arriva a investirvi parte dei propri profitti.

Un inizio frenetico ci introduce ai personaggi principali, riassumendo quanto avvenuto in Ungheria durante e dopo la Seconda guerra mondiale, per lasciare poi spazio a un rallentamento del ritmo e dello svolgimento cronologico della biografia di Tóth. Lo spettatore approfondisce la conoscenza del protagonista e comprende il suo rapporto di speranza e disillusione, amore e odio, con gi Stati Uniti d’America, luogo dell’accoglienza e terra degli uomini liberi secondo la vulgata e la retorica comune, ma tempio del profitto e dell’ipocrisia nella dolente realtà.

L’impatto con il continente rivela ben presto un retrogusto acre sotto l’illusione del luogo dove tutto è possibile: Corbet sembra prefigurarlo inquadrando solo con un’immagine ruotata di 90 gradi la Statua della Libertà, simbolo dell’accoglienza verso gli stranieri approdati a New York. In Van Buren, László sembra aver finalmente trovato il perfetto mecenate, un animo sensibile all’arte e disposto a lasciare la massima libertà creativa all’artista magiaro. Dopo aver creduto alla generosità e alle belle parole spese da Van Buren nei suoi confronti, però, Laszlo scoprirà il rovescio della medaglia: tra i due si instaura una dinamica ambigua e altalenante, che simboleggia la relazione tra Usa e Europa.

(mimovies.it)